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Socialismo, perché no?

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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 8 della rivista Gli Asini. Partendo da un libricino del filosofo canadese Gerald Cohen, che titola il pezzo, «Socialismo, perché no?», Stefano Laffi avanza una proposta di società basata sui principi di uguaglianza e comunità.

di Stefano Laffi

È̀ una questione di evidenza, di presa d’atto. Per semplicità, per essere creduti, prendiamo citazioni note e scontate dalle pagine di un qualunque vecchio manuale di Educazione Civica, oggi Cittadinanza e Costituzione. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro… Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione… Le libere elezioni sono lo strumento fondamentale della democrazia perché consentono al popolo di eleggere il Parlamento. Eccetera. Fermiamoci qui, per pietà. Non è questione di ignorare la Costituzione o non sapere a memoria l’inno, è che non ha riscontro, non è qui non è ora, è come studiare l’aoristo in greco antico, giusto farlo ma quel tempo non ci appartiene.

Oggi, qui in Italia, di lavoro non si vive ma in compenso si muore tre volte al giorno per 1000 incidenti mortali sul lavoro all’anno, il lavoro non è nei fatti un diritto per la maggior parte degli under 30, non è il sogno unificante degli italiani ma il miraggio dei giovani e l’incubo di chi doveva andare in pensione, è il privilegio di alcuni o l’arma di ricatto verso chi ne ha più bisogno, come i migranti. Quanto poi i parlamentari – non tutti, non sempre, va bene – rappresentino molto poco la Nazione e molto se stessi, è nell’evidenza degli ultimi mesi. Le loro liste poi erano bloccate alle elezioni, qui nessuno di noi ha scelto nessuno, in elezioni che non sentiamo più come apice democratico, momento di decisione privato e in coscienza, perché la trasformazione dei mezzi e dei modi della comunicazione pubblica ha truccato le carte, il consenso è oggi una questione di soldi, di budget disponibile e marketing, di abile costruzione di immaginari di sogno o di rabbia, di corruzione morale porta a porta, o Porta a Porta se si preferisce…

Se la democrazia soffre, non va meglio al capitalismo. Viviamo in un’economia di mercato, fondata sulla libera concorrenza, perché questa è la forma ideale di distribuzione delle risorse e valorizzazione delle competenze, eccetera: non è qui, non è ora. Da molto tempo abbiamo cercato invano la libera concorrenza dove ci avevano promesso: non c’è nei media o nell’editoria, non c’è quando fai la benzina o prendi il treno o il taxi, non c’è quando cerchi un posto di lavoro, non c’è quando partecipi a un bando pubblico, non c’è quando cerchi una casa. Poi, di recente, abbiamo visto che quando invece arriva nelle sue forme più attuali, più spinte – la globalizzazione dei mercati, la speculazione finanziaria – è una rovina, fa la felicità di pochissimi e la povertà di tanti, polarizza i redditi, semina ingiustizia e violenza, rovescia i governi, cancella la storia dei territori e delle persone. E tutto diventa insensato: cosa c’entra la mia vita con lo spread, perché la prima cosa che mi viene raccontata del mondo è la borsa di Tokio, perché il mio tempo di lavoro o di riposo dipenderà dai Btp e non da me, dal mio corpo, dalla mia testa, da chi ho vicino?

Socialismo, perché no?
È così che si intitola un libricino, prezioso e sorprendente, del filosofo canadese scomparso di recente, Gerald Cohen, pubblicato nel 2010. Quel titolo provocatorio, che sembra infilare una proposta politica così, come valesse un “tanto vale provarci”, per mano in realtà di un raffinatissimo filosofo politico, svela la prima chiave interessante, assai poco comune nel nostro dibattito.
Non si tratta dei funerali del capitalismo di chi aspettava questo momento da una vita, e ci arriva col rancore dell’attesa, quasi della vendetta. E nemmeno è un esercizio di ortodossia marxista di chi non è mai uscito dalla foresta, crede di essere nell’Ottocento di fronte alle masse proletarie. E non siamo noi italiani di oggi, col nostro senso di disperazione, per esclusione disposti a tutto pur di liberarci del regime degli ultimi anni. Né siamo noi italiani col tabù della parola “socialismo”, perché l’ultimo che l’ha indossata si chiamava Bettino Craxi, per molti versi padre politico di Silvio Berlusconi, creatore di una Milano che forse solo ora si comincia a liberare, parola comunque “bruciata” da un partito finito male e molto lontano dalle sue idee fondative.
Pare strano, ma ci tocca sentire da un filosofo canadese cresciuto a Oxford l’avance sul socialismo come un’opzione sensatissima, plausibile, realistica, da prendere seriamente in considerazione perché ci conviene. È questo che ci spiazza, perché non appartiene alla nostra retorica: con serietà e pazienza Cohen mostra che converrebbe provare. Lo spiazzamento sta nel fatto che qui non si parla di crisi, di lotta di classe, divario fra ricchi e poveri, forse perché Cohen sa che con quegli argomenti ci si divide immediatamente fra chi è d’accordo e chi non ne vuol sentir parlare. Insomma non convinci nessuno che non lo sia già prima. Cohen prende per mano e poco alla volta – la lettura non è emozionante, Cohen non trascina le folle ma scandaglia le varie ipotesi e le relative argomentazioni da filosofo analitico – prova a smontare le obiezioni di principio, per rendere accettabile quell’avance a più persone possibili.

Il campeggio
È questo il colpo di genio del pamphlet, tutto parte dall’idea di andare insieme in campeggio. Perché il campeggio è il socialismo realizzato. Vogliamo tutti divertirci e ognuno a modo suo, condividiamo degli strumenti che ci scambiamo secondo le necessità – perché non prestare il martello se non lo stai usando? – le differenze sono rispettate ma anche messe implicitamente al servizio di tutti, perché chi sa cucinare bene lo può fare anche con poco sforzo per gli altri oltre che per sé, e se vai a far la spesa puoi chiedere anche agli altri cosa manca, e quando lavi non ti cambia molto farlo anche per chi hai vicino… La cosa straordinaria del campeggio è che il socialismo è la soluzione più naturale di regolazione dei rapporti fra le persone, prova ne è che qualunque introduzione di regole di mercato risulterebbe assurda: se tu fai pagare il prestito del martello poi ti tocca comprare l’aiuto di chi ti tiene i bambini mentre fai la doccia, e se lì ti accorgi di avere finito lo shampoo anziché chiederne una manciata a chi hai accanto fai la follia di tornare indietro, rivestirti e andare a comprarne una confezione intera, mentre corre il tassametro di chi tiene i bambini… Che inferno – o banalmente troppo simile alla vita urbana di tutti i giorni – e poi quale sarebbe il prezzo di ogni cosa, e stabilito da chi, e accettato da chi? Insomma lo scambio naturale comunitario e autoregolato secondo capacità e disponibilità di ciascuno per il benessere di tutti se trasformato in compravendita diventa folle, complicatissimo, opinabile, certamente la rovina di una vacanza.
Il campeggio è un esempio, non è il traguardo, Cohen non vuole lanciare velatamente un ritorno alla natura né presuppone che quel tipo di vacanza possa piacere a tutti, anzi, è lui il primo a prenderne le distanze, dichiara apertamente di preferire il comfort del college di Oxford alla vita all’aria aperta, ma ciò non toglie che il campeggio funzioni così e così al suo meglio, con piena felicità di tutti.
Il segreto del campeggio è che riesce a fondere due principi, quello di uguaglianza e quello di comunità, ma è la forza del secondo a determinare quel particolare equilibrio. L’analisi di Cohen è sofisticata e teorica, proviamo a tradurla nel suo esempio. Il campeggio è una città di eguali, non c’è gerarchia sociale fra i campeggiatori, il professore universitario non lo distingui dall’impiegato o dall’operaio quando è in costume che picchetta o cucina. Ma è un’uguaglianza speciale, perché azzera la valorizzazione che ciascuno è riuscito a ottenere nella società per il proprio talento, creando nuove dinamiche e processi redistributivi: a picchettare forse vale di più l’operaio del professore, a leggere le istruzioni della tenda che si apre in due secondi forse è più abile il figlio quindicenne del padre. Ma è poi la circolazione di tutto a generare il beneficio collettivo: l’intuizione del figlio, la manualità dell’operaio e magari le competenze linguistiche del professore a chiedere il martello ai campeggiatori stranieri vicini danno a tutti e tre possibilità che da soli non avrebbero avuto. E tutto questo avviene senza negare le diversità, perché il campeggio lascia liberi, c’è chi si sveglia presto e chi dorme fino a tardi, chi ama rilassarsi leggendo e chi facendo ogni tipo di sport all’aria aperta, eccetera. E la libertà si autoregola, senza bisogno di Costituzione, giudice di pace o servizio d’ordine: a nessuno viene in mente di giocare a pallavolo fra un lato e l’altro della tenda del vicino, di scaricare l’immondizia davanti al suo ingresso, di ignorare uno che piange, di protestare se la biglia del bambino del vicino ti arriva sul piede. La verità è che la reciprocità comunitaria crea civiltà, solidarietà e tolleranza, perché nella reciprocità comunitaria lo scambio fra le persone è per necessità, utilità, piacere, mentre nel mercato sempre e comunque per guadagnare.

Metter le tende in città
Si vede che Cohen non andava in campeggio o non ci andava da un pezzo, oggi avrebbe rischiato la micidiale animazione con il rito serale della baby dance, il macchinone del vicino che quasi non ti lascia l’accesso alla tua tenda, la scena sconfortante del salotto a cielo aperto perché c’è chi trasferisce la casa in campeggio e passa le sere in poltrona a guardare la tv… ma non importa, nulla toglie all’idea socialista – se mai misura il nostro livello di intossicazione da comfort – e alla bellezza insuperata del campeggio come vacanza.
La questione, che Cohen non si pone, è come colonizzare la città. Sono convinto che il segreto del campeggio sia molto legato alla natura, all’essere seminudi in mezzo agli alberi, al dover usare le mani e il corpo, alla condizione di necessità e fragilità che un semplice temporale ti restituisce, al non essere esposti praticamente mai a messaggi pubblicitari, al poter fare quasi tutto senza avere con sé né orologio né portafoglio. Insomma, tutti i principi della vita urbana sono ribaltati. Non credo onestamente che il trapianto sia possibile, così com’è, e chi in città è circondato dalla natura, dorme sull’amaca, si abbronza seminudo a casa e ignora l’orologio probabilmente non è l’avamposto del socialismo ma un ereditiere privilegiato.
Eppure il campeggio è fondamentale, per un’altra ragione: il campeggio è una scuola, è una pratica di igiene mentale, è un’esperienza pedagogica fondamentale per capire altre cose di te e degli altri, per imparare a stare nella natura se come tutti sei costretto alla cattività della città, per misurarti con un’antropologia di te cui altrimenti non accedi. Quel processo di smaterializzazione ha dell’incredibile – tutta la pesantezza della casa e dei suoi mille oggetti si volatilizza in uno zaino di pochi chili, dove c’è tutto quel che basta, ma allora come stai vivendo? – quel congedo sereno dagli elettrodomestici e dai display non ti par vero, e nulla ti apre quanto ripensare le relazioni umane a partire da porte fatte di nylon e cerniere, da grigliate comuni improvvisate senza telefonarsi e conoscersi, dal giocare coi bambini degli altri, dallo scambio di tutto, dai doni che ti viene naturale fare quando parti, dalla casualità di chi hai vicino, dall’emozione che senti nell’essere sotto lo stesso cielo, dal piacere di sentirti finalmente utile e non tanto valutato per i tuoi successi o insuccessi. Non è un caso che in campeggio non esista solitudine, e in questo sia veramente il socialismo realizzato. Cohen ha ragione, c’è da imparare dal campeggio.


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