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Hip Hop Rock against NOIA!

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di Simone Caputo

“Buona parte del punk-rock è costituita dal Grande Ritornello Americano (o Inglese, a dir la verità) della Sublimazione Adolescenziale. Tutti quelli che hanno tra i dodici e i vent’anni vogliono fare sesso, anzi, non pensano ad altro tutto il giorno, ma la maggior parte delle loro riflessioni sono robaccia nevrotica che prosciuga le energie, col risultato cha abbiamo Due Principali Scuole di Punk Rock. Una compensa per eccesso la nevrosi adolescenziale con un’esibizione esagerata di arroganza da macho sottolineata da giri di basso vendicativi come un cazzo in tiro, mentre l’altra si limita a scalare, sommergendo tutto quanto di doppi sensi contortissimi e ambigui sulla droga. […] Fino a poco tempo fa, almeno. Quelle erano seghe lisergiche da sballatoni di acidi tipiche della metà anni Settanta, ora i tempi sono cambiati e alle droghe nessuno ci fa quasi più caso; ci deve essere qualcos’altro che eviti a quei poveri verginelli di dover cantare di scopate e rovinare tutto rivelando la loro completa inesperienza. Non possiamo liquidarli, perché sono un buon 40 per cento del rock. Solo uno su ventimila ha il genio sfacciato di un Iggy o di Jonathan dei Modern Lovers ed è disposto a cantare dei suoi complessi adolescenziali in modo talmente onesto che ti fa male, imbarazzando da morire metà del suo pubblico”.
Così scriveva Lester Bangs, negli anni Settanta, come al solito fuori dagli schemi e illuminante, capace di raccontare adolescenti e musica come quasi nessuno oggi osa fare o vuol fare, quasi che interrogarsi sulla musica e sui dischi che escono abbia senso, mentre chiedersi qualcosa su quegli adolescenti e quei giovani che la musica la fanno e la ascoltano nei garage e nelle camerette non ne abbia. Bangs va ovviamente tradotto: perché il rock non è più il solo genere di riferimento, affiancato com’è da hip-pop, electro, sonorità indie e dark; perché le trasformazioni tecnologiche, la rete e la “mutazione” culturale investono il presente; perché quei tempi sono finiti con le morti in piscina, su una roulotte, in una vasca da bagno, nel bagno di un aereo privato. È finito un certo rock, e con esso un’epoca di sogni e di speranze. Eppure le parole di Bangs continuano sferzanti a dirci su adolescenti e giovani, ora che i maledetti, le ubriacone, i poeti e i demoni sono spariti, quello che ancor di più oggi non si dovrebbe assolutamente fare: “Non possiamo liquidarli, perché sono un buon 40 per cento del rock”.
Eppure, di fatto, liquidati lo sono. E non solo da gran parte della critica musicale: a farle compagnia ci sono l’università e quanti si occupano di discipline sociologiche, e gli stessi educatori e operatori che pur si preoccupano di condizione giovanile. Se si usa come solo criterio di valutazione quello relativo alle pubblicazioni accademiche sull’argomento il dato che emerge è avvilente: nell’ambito delle discipline sociologiche la discussione sulle comunicazioni di massa è prolifica, ma i problemi della musica (in generale, non solo quelli relativi alla musica e gli adolescenti) non vi godono di una particolare considerazione. Del lavoro di ricerca che la sociologia della musica ha portato aventi nel corso di un ventennio, almeno negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma anche in Francia o in Svezia, se ne è a malapena avvertita l’eco in Italia (come sottolinea La musica e gli adolescenti, interessante testo pubblicato dal Dipartimento di Musicologia dell’Università di Bologna nel 2004, tra i pochi esempi italiani di studio attento del fenomeno). In Italia si discute di tempo libero, di politiche culturali, pressoché sempre e genericamente in maniera fastidiosa di “condizione giovanile”. La sociologia dell’educazione e della politica sì, quella della musica no.
Un paese di accademici, educatori e critici spesso ciechi, dunque. Nessuno mette in discussione le dimensioni quantitative della presenza della musica nella vita dei giovani o degli adolescenti; assai meno solida o meglio del tutto inesistente è la conoscenza delle sue ragioni e delle sue conseguenze nel qui e oggi, nonché dei significati che gli stessi soggetti attribuiscono all’ascoltare, consumare, fare musica. Continuano, e a torto, a interessare le culture giovanili solo quando esse sono sub-culture definite sulla base di uno stile di vita estetico, normalmente caratterizzato anche in termini musicali, e si continua a sostenere che le scelte musicali sono parte integrante di reazioni collettive ai problemi che quei giovani vivono per il fatto di occupare posizioni sociali subordinate. Lo si faceva coi mods, i rockers, gli skinhead, i punk, lo si fa oggi con gli emo, gli indie, le crew dell’hip-hop. Un modello d’approccio sbagliato per diversi motivi: perché maschilista, perché non riconosce nelle “camerette” e nei piccoli luoghi strategie in alcuni casi alternative di resistenza simbolica, perché distingue le sottoculture giovanili soprattutto attraverso la musica, ma poi della musica non se ne frega neanche un po’. Un modello incapace di riconoscere il potere degli stessi media e della società dei consumi nel forgiare le rappresentazioni delle sottoculture e le loro pretese di autenticità: il potere tende a renderle “capitale culturale” e a eliminare completamente ogni elemento di disturbo o di resistenza. Un modello completamente inadatto all’epoca della rete, in cui sovraesposizione, super-abbondanza e tutto-immediatamente-disponibile, rendono assai difficile poter parlare di sottoculture. Un modello che si dimentica di tutti quegli altri ragazzi e ragazze che rendono il fare musica un fenomeno sociale di massa e un aspetto cruciale della loro vita, come della vita degli altri. Sempre Bangs in un’intervista del 1980:

“A essere sinceri sono tanto alienato e schifato da chiedermi se davvero voglio fare qualcosa nei prossimi anni. Vedi, la questione è: sta diventando tutto come la rivista People. Tutta la radio, tutta la stampa, tutto quanto sta diventando così, anche l’industria editoriale. Ieri parlavo col mio agente e gli ho chiesto: ‘Pensi che di questo passo l’unica cosa vendibile sarà la biografia-marchetta di una celebrità?’, e lui ha risposto: ‘Non lo so’. […] Allo stesso tempo tutti quelli che conosco sono completamente alienati, scoglionati, nauseati da tutto, e so che gran parte di quelli che lavorano nei media e ci propinano questa roba sono alienati come lo è il pubblico. Il pubblico compra solo perché non gli viene offerto qualcos’altro. E, personalmente, mi chiedo quand’è che la gente comincerà a dire: no, mi rifiuto, non ne voglio più!”.

Aldilà dell’evidente validità delle affermazioni anche per i nostri Anni Zero, quel che è più interessante delle parole di Bangs è nel provare a metterle in relazione con alcune riflessioni sui ragazzi e le ragazze che oggi la musica la fanno (tralasciando il complesso discorso su ascolto, individualità e solitudine legati a esso, società liquida e tutto quello che ne consegue). Perché è proprio negli adolescenti che la musica la fanno suonando e mixando che sembra possibile intravedere soggetti completamente diversi da quelli descritti da Bangs, alienati e scoglionati. Dire che la musica suonata, soprattutto in gruppo, dai più giovani sia una possibilità di libertà, una via anarchica, rispetto alle maglie strette di una società che tende a incanalare, può sembrare un’ovvietà, o ancor più una banalità se si pensa che in fondo è sempre stato così da quando la musica popular ha preso il sopravvento su quella classica.
Eppure banalità forse non è se si pensa che oggi più che mai i mass-media offrono un modello unificante e tremendamente stupido del fare musica, incentrandovi addirittura una gran parte del palinsesto televisivo pubblico e privato: Amici di Maria de Filippi, o X-Factor, i due nomi che subito rendono chiaro il quadro della situazione. Tutrice del talento giovanile italico, Maria de Filippi e i suoi, nel giro di un decennio hanno modificato e alterato nelle teste di molti grandi e piccoli il più basilare dei concetti che chi si avvicina all’arte della danza, o della recitazione, o del canto deve sapere: il talento, che sia dato dal corpo o da una personalità geniale, o lo si ha o non lo si ha; non può essere sostituito da altro. Pur di confezionare galline dalle uova d’ora, utili per una sola stagione e poi da buttar via, la fabbrica De Filippi ha sospinto un modo di pensare per cui è giusto che l’allievo prenda il sopravvento sul maestro, la faccia tosta sul rispetto, la bugia sul vero, il costruirsi un personaggio sull’avere talento. Un salto nel buio che oramai non fanno più solo quanti si presentano dinanzi alle telecamere di Amici, ma i più, fino ai frequentatori di piccoli laboratori teatrali o di concorsi canori. Un salto avallato anche da chi preoccupato dal dare giudizi sulle qualità dei partecipanti alla trasmissione, o sulle beghe generate dalla stessa, non si è accorto che intanto i ragazzi e le ragazze, accaniti teledipendenti, prendono per buono e seguono il modello Amici – del resto a lungo l’unico modello televisivo disponibile. Un’idea avallata da discografici senza scrupoli e ancor più colpevolmente da critici musicali che avrebbero dovuto interrogarsi seriamente su una trasmissione come Amici, e che al contrario, oggi, partecipano alla stessa. Come può scrivere seriamente, sulla stampa nazionale, di musica e televisione, chi è al contempo stipendiato dal programma che dovrebbe descrivere o analizzare?
Il tentativo di costruire personaggi a tavolino in modo da creare un mercato o da accontentarne uno già esistente, non è certo una novità. La presenza però di una vecchia discografica come Mara Maionchi, nel programma X-Factor, talent show Rai, antagonista di Amici di Maria De Filippi, aiuta a comprendere i salti compiuti da un sistema impazzito, facendo di lei un esempio di quanto avviene tanto in Rai quanto a Mediaset. Per decenni la Maionchi ha lavorato per consolidare e guidare progetti talentuosi o almeno validi verso un successo ampio e duraturo: Mogol-Battisti, PFM, Tozzi, Vanoni, De Crescenzo, Mia Martini, De Andrè, Arbore, Tiziano Ferro. Con la scomparsa delle grandi etichette e la frammentazione del mercato dovuta all’esplosione del download on-line, la Maionchi (esempio che vale per i più) ha pensato bene di occupare un posto fisso in tv, per orientare il gusto del pubblico e meglio lanciare i giovani della sua etichetta: in anni in cui i ragazzi vengono gettati sul mercato e bruciati col la stessa velocità, meglio essere sempre di fronte alle telecamere per dire agli italiani chi davvero ha l’X-Factor e chi devono scegliere come star del momento. Azioni efficaci, se si pensa alla forza a senso unico di questo martellamento, capace di spingere più di 90.000 adolescenti a televotare negli ultimi cinquanta minuti di diretta del Festival della Canzone Italiana del 2010 l’insignificante Per tutte le volte che… di Valerio Scanu, e a decidere così l’esito dell’ultimo Sanremo. Con un’ulteriore considerazione su tutte: nulla sono le majors della musica se si guarda ai nomi che oggi le hanno soppiantate nell’indirizzare i gusti musicali soprattutto di adolescenti e giovani. Zeng, Acotel, Tjnet, Buongiorno, Dada, tutti i gestori di telefonia fissa e mobile, e tanti altri ancora.
In un quadro del genere non può che assumere una nuova luce tutto quel mondo fatto di ragazzi e ragazze che suonano, che scrivono canzoni, che si stordiscono nei garage, che remixano qualsiasi tipo di musica, che continuano a picchiare su chitarre e batterie, che descrivono melodie beatlesiane, che si lanciano in rap strampalati, che hanno una memoria musicale da far invidia e cosa non da poco in un’epoca in cui la storia sembra non interessare più a nessuno. Non un’affermazione romantica o una stupida illusione: piuttosto una costatazione, che nella sua semplicità ha però un valore importante. Perché, senza voler dare una sublimazione o un tono alto a un mondo che è assolutamente coi piedi per terra e che disegna nitidamente i confini del presente, esiste una geografia italiana che passa per le grandi città e le provincie marginali, che innesca una catena d’intensità che si propaga da paese a paese, con la velocità e l’ineluttabilità di un grido, con un’utopia fatta di demenzialità, atteggiamenti non classificabili, spinte non previste: un catalogo fantascientifico di band, ragazzini, adolescenti, giovani che suonano e schiattano.
Non aveva certo torto Lester Bangs a dire che “tutti quelli che hanno tra i dodici e i vent’anni vogliono fare sesso, anzi, non pensano ad altro tutto il giorno, ma la maggior parte delle loro riflessioni sono robaccia nevrotica che prosciuga le energie”: basta sentirli suonare e cantare per dargli spesso ragione. Ma forse il dato relativo alla qualità non è quello oggi più importante; in fondo pochissimi diventeranno i nuovi Rosolina Mar, Zen Circus, Jealousy Party, Bugo, Maisie, Bachi da Pietra, Mariposa, senza scomodare Dalla, Battisti, Area, CCCP, Diaframma, Afterhours. Eppure capitare in un piccolo centro sociale, ad esempio, e ascoltare questi ragazzetti che urlano e si sbattono, che si cimentano con i tipi di musica più diversi tra loro, che interagiscono e si ascoltano, è un’esperienza strana: si resta sospesi tra il giudizio molte volte negativo sulla musica e la sorpresa tutta positiva nel vederli e sentirli sinceri e anarchici come sempre meno capita in altri momenti della vita o con altre espressioni artistiche d’oggi. C’è un fregarsene del successo, del giudizio, dell’accordo, del suonino, che fa sorridere. C’è dello sporco che sembra quasi bello. Il coraggio di costruire un sound, forse strampalato, ma almeno autentico pur quando copia qualcuno. Dalla loro la voglia di mettersi in gioco e in relazione, e di portare in giro la propria musica, con un senso dell’apertura che giovani appassionati di cinema e teatro dovrebbero invidiare. Hip-pop-rock against NOIA!
In un momento in cui anti-umano e anti-emotivo la fanno da padrone, ricordare che tanti adolescenti, in barba ai modelli dominanti, fanno rock e hip-hop, suonano senza voler comparire in alcuno studio televisivo, semplicemente comprando una chitarra o usando il computer, non è un fatto banale. La musica come bisogno di avventura, ricerca di un’identità, reazione alle bordate insopportabili delle mode che diventano, infallibilmente, fenomeni di massa, ma anche come bisogno di sicurezze, di sentirsi meno soli. Bisogno di poesia, di mandare a memoria parole e strofe, di avere un qualcuno con cui sbattere la testa o almeno provarci.
E che fa che ascoltando la maggior parte di loro verrebbe da dire: “questa schifezza la saprei fare meglio io”. Anzi è proprio questo uno dei motivi per cui ci piacciono ancor di più.

Mi ha detto Dani che si può cambiare rimbocchiamoci le maniche/scongeliamo i pesci spezziamo i pani baci bene baciamano alle anziane maddalene/ ripaghiamo ridiamo la pensione anche alle puttane e per questo vi porto una voce senza/volto significa non fatemi foto datemi ascolto il cliché del rap del rock con le armi come/Totò le mokò ma io so che si può fare obiezione di coscienza per quelli come me/odio le armi e vi regalo la diligenza/tenetevi le miss le miss in baule l’ importante è che mi lasciate i miei pupi i miei muli/assieme valichiamo confini scoscesi alfabetizziamo paesi con le gesta dei primi francesi/tieniti le capitali dammi gli animali e paesi e l’amore di catanesi more come cinesi/lasciami a piedi nel tacco dello stivale spacchi naturali è vertigine/tieniti stivale tacco spacco vertiginoso e vita infinita sono un poeta la mia morte sarà l’ origine.
«Anche se dite no» – Dargen D’Amico

Questo articolo è contenuto nel numero di Dicembre/Gennaio della rivista Gli Asini, che dedica una lunga e approfondita sezione al rapporto dei giovani con la musica, strumento di formazione e di relazione.


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