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Scuole normali per ragazzi normali

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Questo articolo di Nicola Lagioia è uscito nel primo numero degli Asini (luglio 2010), una rivista bimestrale di approfondimento, inchiesta e ricerca pedagogica e sociale.

Da qualche anno mi capita di ricevere inviti nei licei per presentare i miei libri, o per discutere di problemi più o meno collegati all’educazione civica quali l’Unità d’Italia, la perenne messa a fuoco della nostra identità nazionale e così via.

Non essendo più un teen-ager da quasi vent’anni, rispondo sempre sì a queste chiamate, ritenendole degli ottimi pretesti per entrare in contatto con le nuove generazioni. Non ho la pretesa che l’ufficialità degli incontri nelle scuole mi spalanchi chissà quali porte sui segreti dei ragazzi di oggi (cosa sognano, di cosa hanno paura, come sentono il loro tempo, come si fanno risucchiare dal conformismo o come al contrario cercano di costruirsi un’identità, come infine si preparano più o meno consapevolmente a oltrepassare la linea d’ombra che li separa dall’età adulta). E tuttavia, seppure per via induttiva, qualche idea sul loro conto me la sto facendo. Questi incontri sono infatti per gli studenti un piccolo e spesso solo apparentemente indolore banco di prova, dal momento che li costringono a un duplice confronto con ciò che ancora associano al concetto di autorità: l’autorità per così dire interna incarnata dai loro professori, e quella proveniente dal mondo esterno, cioè per l’occasione il sottoscritto – e si sa, non solo per gli adulti, il modo con cui si reagisce al confronto con l’autorità rivela sempre qualcosa di importante negli esseri umani.
Le considerazioni che seguono non hanno la pretesa di completezza né tanto meno di scientificità. Sono più che altro schegge, spunti di riflessione, epifanie, provocazioni guadagnate sul campo delle presentazioni librarie nei licei, piccoli indizi sul funzionamento dei nostri sistemi educativi, e dunque – docenti e studenti – su chi vi è coinvolto.

Falsi pregiudizi

Non credo sia vero, come spesso negli ultimi anni è stato detto (specie dagli stessi docenti a scopo di difesa preventiva) che la scuola al tempo di Facebook e di Maria De Filippi poco sarebbe in grado di fare contro l’appiattimento delle menti dei ragazzi, e ancor di più contro l’imbarbarimento di alcuni loro comportamenti. Secondo questa teoria le fonti di diseducazione sarebbero ormai diventate troppo potenti e pervasive: la televisione innanzitutto, i nuovi media usati in modo dissennato, ma anche gli ambienti sociali degradati e le famiglie – abbienti e non – accomunate dall’analfabetismo di ritorno. A ogni gesto di bullismo esploso sulle cronache dei quotidiani segue puntuale la tirata di presidi e docenti: “cosa possiamo farci, se l’educazione che ricevono in casa loro è quella che è?” E se lo scandalo esplode perché in classe iniziano a girare jpeg soft- o addirittura hard-core di qualche studentessa la colpa è della tecnologia – la Rete, i social network, i siti porno, i telefonini multiuso – e di come la sua acefala volontà di potenza sarebbe in grado di schiantare qualunque volenterosa barricata di umanesimo.
Non credo che le cose stiano così, e a soccorso della mia opinione accorre molto pragmaticamente ciò che succede, con statistica puntualità, ogni volta che metto piede in un liceo come relatore. Gli incontri si tengono quasi immancabilmente nell’aula magna dei licei, dal momento che vi partecipano diverse classi della stessa scuola, i cui studenti rappresentano di conseguenza un campione piuttosto unitario (ragazzi che vivono nella stessa zona della stessa città, di condizione sociale redisribuita per ogni classe in percentuali di eterogeneità presumibilmente simili). Ebbene, nel corso di ogni incontro è sempre accaduto che da una parte gli atteggiamenti civili degli studenti (attenzione, partecipazione, contestazione appassionata e intelligente di quanto andavo dicendo) e dall’altra le condotte poco civili o scoraggianti per chiunque (totale incapacità di prestare attenzione a ciò che accade oltre il proprio naso, compulsivo utilizzo del telefonino, compulsivo utilizzo di un astuccio con cui percuotere i compagni, stato di assoluta catatonia…) non fossero ugualmente distribuite all’interno di ogni classe. A classi di studenti capaci di dare un senso al loro essere lì se ne contrapponevano altre in cui questo non avveniva. Segno che – a meno che non si voglia sposare già l’ipotesi delle classi-ghetto all’interno di una stessa scuola – l’interazione tra studenti e professori conta eccome, ancora e enormemente, sull’educazione e la condotta dei primi. Dal che se ne deduce che, al di là di ogni disfattismo e piagnisteo, la scuola risulta ancora fondamentale nella formazione delle coscienze.

Eterne costanti

A differenza di ciò che accadeva fino poco più di mezzo secolo fa, le élite culturali hanno ormai la caratteristica della trasversalità. Così come venire da una famiglia a basso reddito e precaria scolarizzazione non è un grave pregiudizio per la crescita intellettuale di chi ci nasce, l’abbienza e la presenza di lauree con lode nel pedigree di un teen-ager non garantisce affatto l’emancipazione culturale di quest’ultimo, anche perché spesso quelle lauree appartengono a genitori che – principi del foro o della compilazione dei 730 o professori di liceo che siano – spesso hanno cessato da decenni di esplorare il mondo posto oltre i confini delle loro specialistiche professioni, che per i professori sono ad esempio le colonne d’Ercole dei programmi ministeriali. Quando ero ragazzo, nella mia classe di 25 elementi soltanto tre avevano l’abitudine di maneggiare libri e dischi, o di staccare per propria scelta biglietti cinematografici e teatrali più di due volte all’anno. Questa esigua percentuale era una sorta di costante impazzita, del tutto indipendente dal background della famiglia di provenienza. Ho parlato di costante impazzita, perché si tratta di una percentuale che – misteriosamente – si rinnova nella stessa esigua ma incrollabile misura di generazione in generazione.
Quando vado a parlare nei licei, per ogni classe, ci sono infatti almeno due o tre o addirittura quattro studenti che sanno già tutto, e con i quali il confronto è praticamente ad armi pari. Questi due o tre leggono i libri e i quotidiani, vanno al cinema e alle mostre, divorano fumetti e scaricano (mai a caso) tonnellate di musica, usano internet in maniera molto mirata per andare a pescare dalla Rete esattamente l’informazione di cui hanno bisogno o per cui provano curiosità. Insomma, parlano e intendono una lingua che è già la lingua delle élite culturali, e si capisce che l’hanno appresa indipendentemente o addirittura molto spesso malgrado i loro genitori e i loro professori, rispetto ai quali rischiano di essere più culturalmente solidi, non ovviamente per numero di nozioni in magazzino ma per capacità di costruirsi una bussola con cui esplorare il proprio tempo.
La buona notizia è che queste piccole percentuali nascono e si rinnovano anche nell’Italia del XXI secolo. L’altra buona notizia è che i due o tre ragazzi su ogni venticinque di cui stiamo parlando sono già salvi: non nel senso che da adulti prenderanno sempre le decisioni giuste, ma perché saranno veramente liberi di naufragare e di fallire: la loro consapevolezza, infatti, possiede in nuce tutto quel di cui c’è bisogno per fare l’opposto con cognizione di causa o, al limite, per sbagliare da professionisti.
La cattiva notizia sono gli altri ragazzi, i cosiddetti “giovani normali”. Cioè di gran lunga la maggioranza, quelli che si stanno preparando a non saper leggere un libro né un quotidiano né addirittura a vedere un telegiornale né a individuare cosa si cela per esempio tra le righe di un discorso elettorale… e dunque – salvo tempestive manovre di salvataggio – a essere completamente schiavi della propria epoca. È su di loro, dunque, che si gioca la partita più importante.

Ridere di dolore

Se c’è un sentimento che i professori sanno trasmettere molto bene agli studenti, e gli studenti accolgono senza purtroppo riuscire a proteggersi adeguatamente, è il proprio ingiustificato complesso di inferiorità rispetto a tutto ciò che esiste oltre i cancelli dell’istituto scolastico in cui lavorano, cioè la convinzione che la scuola non solo sia ma debba essere per forza di cose l’istituzione intellettuale più inutile e arretrata tra tutte quelle operanti nel nostro paese. “Per favore, non facciamoci riconoscere!” Traduco: “per favore, non facciamo la figura di merda a cui siamo naturalmente votati”. È questo l’ammonimento che – fatto cadere dall’altro delle cattedre sugli studenti – serpeggia in aula magna quando vado a parlare di libri nei licei. Il sussurro si fa di solito voce squillante quando, subito dopo, mi si avvicina una professoressa chiedendomi di scusare preventivamente i suoi studenti. Scusarli di cosa? Alla domanda la professoressa reagisce scrollando le spalle, come a dire che sì, in fondo dovrei saperlo anch’io che i suoi studenti sono dei sempliciotti, degli sprovveduti, degli esseri intellettualmente addormentati, e che di conseguenza molto di quello che dirò – di qualunque si tratti – non verrà colto né compreso, e dunque (anche questo, quando non si esplicita, è compreso nella scrollata di spalle) perdonassi per favore anche lei e la scuola italiana tutta per la sua inadeguatezza.
Secondo questo presupposto indimostrato, io, che vengo da fuori, sarei dunque una sorta di cosmopolita coltissimo, preparatissimo, informatissimo su tutto ciò che accade nel mondo mentre loro, chiusi nella prigione arrugginita dell’istruzione secondaria, rientrerebbero a stento nel novero delle creature senzienti. I poveri studenti – stretti tra il mio imbarazzo e le scuse preventive dei docenti – iniziano di solito per reazione a ridacchiare e a fare casino, ed è qui che si spalanca il primo momento veramente angosciante di questi incontri: guardare dei ragazzi costretti a ridere dell’inferiorità che i loro professori gli hanno cucito addosso e che, purtroppo, finisce per rivelarsi la classica profezia che si autoadempie. Fingendo di insubordinarsi, i ragazzi in realtà ridacchiano e fanno casino per essere all’altezza dell’immagine da veri falliti che i professori fanno aderire su di loro. A furia di essere trattati come minus habens, si comportano come tali. Quei sorrisi sono di conseguenza le smorfie di dolore per la violenza appena ricevuta. Interrogarsi sul perché i ragazzi siano disposti a ricevere e fare proprie simili violenze senza quasi mai reagire, significa a mio parere addentrarsi in un luogo oscuro di fondamentale importanza per comprendere cosa significa vivere nel nostro mondo alla loro età.

Sadomaso in aula magna

Una delle scene più difficilmente sostenibili a cui mi trovo ad assistere con regolarità al culmine delle mie sortite nei licei, si svolge durante il cosiddetto momento delle domande. Esaurito il botta e risposta tra me e uno o più docenti sull’oggetto dell’incontro, i professori invitano i ragazzi a soddisfare liberamente la propria curiosità, a chiedermi cioè tutto quello che desiderano. Un paio di domande arrivano a questo punto effettivamente in modo libero, e provengono (non c’è bisogno di dirlo) dalle famose risicatissime élite studentesche di cui sopra. Sono quesiti belli, impegnativi, complicati, oppure liberatoriamente ingenui, in tutto simili a quelli che gli adulti pongono normalmente agli scrittori nel corso delle presentazioni in libreria meglio riuscite, con la differenza che mentre durante le presentazioni in libreria si respira sempre tra il pubblico un pizzico di diffidenza preventiva (lo spettatore adulto messo di fronte a uno scrittore che parla di letteratura si domanda per quale motivo non ci sia lui al posto del conferenziere, e dunque si chiede che titoli e qualità abbia mai questo scrittore per aver meritato prima la pubblicazione e adesso addirittura l’uso del microfono), i ragazzi sono disposti invece ad accordarti un credito preventivo (se sei lì, a parlare dietro una cattedra, un motivo ci sarà, si dicono con lapalissiana saggezza) che poi starà a te sprecare o incrementare a seconda di quello che dirai e di come ti comporterai, il che rende gli incontri con questi happy few spesso più difficili e responsabilizzanti e infine più belli di quelli nelle librerie.
Esaurito però questo tipo di domande (quando ci sono), l’aula magna si riempie di silenzio. È allora che accade. Fulminato/a dallo sguardo autoritario eppure insieme acquoso del docente – acquoso con la coda dell’occhio che punta verso me, autoritario nei riguardi della platea – un ragazzino o una ragazzina si staccano impauriti dal resto dei loro compagni e iniziano a balbettare una domanda. Peggio: recitano a memoria, balbettando, una domanda. Peggio: leggono, balbettando, una domanda scritta sopra un foglio accartocciato. Leggono senza spesso riuscire a – né sforzarsi di – comprendere che cosa stanno dicendo, sono all’oscuro di frasi che pure gli escono di bocca e che evidentemente i docenti hanno compilato in precedenza per loro (di solito anche piuttosto sciattamente), o che loro stessi hanno esteso dietro più o meno precisa dettatura dei docenti. Ovviamente, finita di recitare la domanda, e cioè esaurito il compito loro richiesto dalla scuola, piombano in uno stato catatonico e giustamente non si sforzano nemmeno di apparire interessati alla risposta che io a questo punto sto già formulando facendo finta di niente. Ma sono i lunghi secondi durante i quali la domanda viene letta balbettando sul foglietto accartocciato a essere per me insopportabili. Cosa può spingere dei ragazzi a umiliarsi in questo modo? Perché (continuo a domandarmi) non hanno mai uno scatto d’orgoglio e di vera insubordinazione e, in luogo della domanda in stato di lobotomia frontale, non mandano a cacare i professori che li hanno costretti a quella pantomima? Che tipo di emotività mostrano di coltivare costringendosi a queste forche caudine? È la stessa propensione a farsi umiliare o peggio a strisciare che (in forma totalmente diversa) da adulti mostreranno al cospetto dei loro adulati quanto segretamente disprezzati superiori, o comunque di uomini che, di volta in volta, avranno più potere di loro? Ovviamente inizio a farmi anche domande su di me… Perché non interrompo la tortura? Perché non sono io a insubordinarmi dal ruolo di conferenziere costretto a subire la violenza di una domanda espressa simulando la lobotomia frontale, a propria volta sillabata dal pilota automatico di una giovane mente schiacciata dall’inaudita violenza di un’intera tradizione di professori e professoresse intellettualmente suicidi, i quali, convinti in partenza che la scuola non possa reggere il confronto con qualunque corpo estraneo dotato di intelletto (“mi raccomando ragazzi, non fatemi fare le solite figuracce!”), anziché accettare la sfida di un bel silenzio pacificante caduto in aula magna dopo tante parole proferite, partono in difensiva con questa follia delle domande preconfezionate, con risultati umilianti e violenti senza che ovviamente vergano formalmente percepiti da nessuno come tali…
Quando va bene, riesco a osservare con reale ostilità lo studente che balbetta senza capirle, le domande scritte sul foglietto accartocciato. Trattandolo come avversario anziché come semplice burattino degli eventi, tento di restituire dignità sia a lui che a me stesso. Ma in fin dei conti non lo so, perché non mi insubordino in maniera plateale. Immagino per debolezza e per connivenza ambientale. Immagino perché – senza che la colpa possa essere fatta ricadere sui singoli professori, molti dei quali sono brave o bravissime persone senza per questo ascendere al ruolo di eroi brecthiani – è l’atmosfera culturale della scuola a favorire situazioni di questo tipo, così come le caserme di una volta favorivano e tolleravano gli atti di nonnismo di fronte ai quali diventavano inerti anche gli animi sensibili.
È ovvio che episodi come questo rappresentano solo un esempio, il quale, esteso analogicamente a molte altre situazioni che si consumano quotidianamente negli edifici scolastici, mostra se non addirittura dimostra che c’è qualcosa di radicalmente sbagliato nel modo in cui impostiamo i nostri sistemi educativi.

Se tre indizi…


Se tre indizi sono sufficienti per una condanna morale, la prova dello stato d’alienazione imperante nelle aule scolastiche si manifesta sotto le vesti di una domanda stranamente ricorrente nel corso di questi incontri, e che collocherei a metà strada tra le domande formulate in effettivo stato di libertà mentale e quelle sillabate col pilota automatico.
“Cosa dovremmo fare, secondo lei, per poter essere davvero liberi nella vita?”
Eccola, la domanda è questa, e almeno una volta per ogni incontro nei licei a un certo punto mi viene rivolta. Il problema è che a formularla è di solito uno studente o una studentessa il cui volto e la cui voce e la cui faccia esprimono inequivocabilmente il disinteresse più totale e verso il vero senso dell domanda e verso qualunque possibile risposta, ammesso che una risposta soddisfacente su questo dilemma sia formulabile. D’altra parte, si capisce però anche molto bene come la domanda in questione non rientra tra quelle suggerite dai professori. È una dichiarazione resa, per così dire, in modo spontaneo. E, allo stesso tempo, chi la formula lo fa in uno stato simile al sonnambulismo. Non è più un preciso qualcuno, un singolo professore o una singola professoressa ad avergliela suggerita, ma qualcos’altro. È, insomma, il tipo di domanda che lo studente in questione si aspetta che l’istituzione scolastica debba formulare per il tramite della sua persona. Una domanda e un’ingiunzione a porla che lo studente giudica totalmente svuotati di senso (da qui la sua espressione devitalizzata), il che però non gli impedisce di sentirsi ugualmente costretto a formularla. Ovviamente, la cosa più ironica e agghiacciante al tempo stesso è l’oggetto della domanda: cosa fare per essere davvero liberi in questo mondo.
Non ho dubbi che, fuori dalla scuola – e probabilmente fuori anche dai lacci famigliari – lo studente o la studentessa in questione provino a ricavarsi il proprio spazio di libertà. Lo cercano, e lo trovano, e probabilmente lo difendono fino a quando non sono costretti a cercarsene un altro, ma tutto accade nel privato. Il problema è che però il loro rapporto con uno dei pochi contesti di vita pubblica con cui hanno a che fare si sostanzia nel riconoscere, più o meno consapevolmente, in seno alla scuola: 1) una formale vocazione a renderli liberi e consapevoli, 2) una sostanziale sonora smentita di questa missione, e anzi la sostanziale fioritura di un autoritarismo sotto mentite spoglie (“il sapere rende liberi!”) 3) un non poterci far niente da parte loro, che tuttavia a quell’età sono già disposti a indorarsi la pillola, e dunque a prendere per il culo sia l’interlocutore che se stessi, e a mandar giù: “cosa dovremmo fare, secondo lei, per essere davvero liberi nella vita?” Suono della campanella. Tutti a casa.

Il perfetto opposto dell’autoritarismo è l’autoritarismo

La controprova speculare di questa attitudine è incarnata dai professori di sinistra ancora sintonizzati sui rimpianti del Sessantotto. Nel corso di un incontro in un liceo scientifico, al quale mi sembrava tra l’altro che gli studenti stessero reagendo abbastanza bene, con compostezza e attenzione, a un certo punto la loro professoressa d’italiano, che condivideva con me la cattedra, nel bel mezzo di un discorso sugli eterni mali dell’Italia ha iniziato a criticare i suoi studenti – cioè i ragazzi che ci stavano davanti – accusandoli di una scarsa attitudine a sovvertire lo status quo. Non contenta di questa prima frecciata, la professoressa ha cominciato a provocare gli studenti: “anche adesso, ragazzi…”, ha detto, “io mi domando perché mai all’accusa che vi sto lanciando non reagite. Muovetevi, arrabbiatevi, fate qualcosa! Cioè… so che dovrei essere l’ultima a dirlo… ma insomma… perché non mi contestate?”
Gli studenti hanno continuato a guardarci attoniti, senza proferire una parola, e io ho provato più scandalo che pena per una professoressa che, cercando di parlare a nome (ancora una volta!) della spontaneità e addirittura della contestazione, non si rendeva conto di avere contribuito a creare intorno a sé un morbido, impalpabile, pervasivo clima di autoritarismo. È un autoritarismo relativamente nuovo, che ha molto più a che fare con la morbida totalizzante macchina della pubblicità che non con il vecchio autoritarismo patriarcale ormai quasi del tutto inoffensivo.
Infatti, questi sono gli stessi professori che poi si danno da fare (con grande generosità e spendita di energie, questo almeno gli va riconosciuto) per coinvolgere gli studenti in attività creative, quali per esempio l’ideazione e l’allestimento di una mostra fotografica o di uno spettacolo teatrale, oppure la scrittura e la realizzazione di un cortometraggio. Si tratta di prove creative dall’esito immancabilmente reazionario. Perché è ovvio, da questi esercizi non si pretende che venga fuori un Kubrick o un Ibsen o una Diane Arbus in erba, ma è invece lecito aspettarsi che, per degli studenti, inventarsi un cortometraggio o allestire uno spettacolo teatrale sia almeno un po’ pericoloso e li metta in gioco come ogni attività creativa dovrebbe fare. Dovrebbero usare i mezzi della creatività per parlare cioè una lingua diversa, e antitetica, rispetto a quella del potere. Dunque dovrebbero imparare, attraverso l’attività creativa, a diventare sanamente almeno un poco eretici. E invece – ben ammaestrati in questo dai professori – gli studenti imparano ad allestire una scenografia o a montare un cortometraggio esattamente come potrebbero imparare a scavare una trincea o a montare del filo spinato su una torretta. Solo, lo fanno fischiettando o mettendo in sottofondo (da questo amorevolmente autorizzati dai docenti) la musica dei Nirvana, in un contesto che ormai sarebbe in grado di disarmare e rendere innocuo persino l’heavy metal satanico o la lettura di Rimbaud. Dunque, in fin dei conti, che cosa stanno fanno veramente questi ragazzi con la scusa di Shakespeare o di Diane Arbus? Iniziano ad acquisire una prima spolverata di competenza. Quanto agli esiti linguistici (cioè al vero contenuto) della mostra fotografica o dello spettacolo teatrale o del cortometraggio… be’, alla fine è tutto così reazionario, poco spontaneo, morto, da ricordare alcune trasmissioni televisive per ragazzi del primo pomeriggio.
Ulteriore controprova di quanto vado dicendo, un episodio capitatomi qualche mese fa. Mi chiama l’ufficio stampa della casa editrice per cui ho pubblicato il mio ultimo libro e mi dice che una ventina di licei vorrebbero tendenzialmente invitarmi a parlare di letteratura ai loro studenti. I docenti di queste scuole hanno letto qualche mio libro e qualche mio articolo pubblicato sui quotidiani o sulle riviste, e insomma ritengono che un incontro tra me e i loro studenti possa essere interessante. Sì, d’accordo, ma cosa significa “tendenzialmente”? Significa – dice l’ufficio stampa – che per tre di questi venti licei l’invito è già formalmente valido, mentre per gli altri bisognerà aspettare che si capisca se ci sono i fondi, il che significa i soldi per pagarmi un biglietto ferroviario a/r e una pensione per la notte.
Questo stato di latenza è durato per circa due mesi, fino a quando cioè non sono stato invitato a presentare il mio libro a una trasmissione televisiva abbastanza popolare. A partire dal giorno dopo, non solo i diciassette licei ancora in forse hanno deciso di sciogliere le riserve e utilizzare i propri fondi per invitare me anziché un altro scrittore “non televisionato”, ma professori e presidi di molti altri licei si sono fatti avanti. Ma come? proprio la famigerata televisione generalista? Ecco che il cerchio idealmente aperto con i discorsi precedenti si va a chiudere.

Autobiografia di una nazione

Una cosa veramente illuminante, me l’ha detta un professore di lettere al termine di uno di questi incontri. Un uomo ben piazzato, sulla sessantina, che mi si è avvicinato e poi, con grande gentilezza, ha incenerito qualunque discorso implicito sull’argomento in questo modo: “lo sa fino a quando il nostro sarà un paese intimamente fascista?”
“Fino a quando?”, ho risposto sollevando le sopracciglia.
“Fino a quando sarà in vigore il tema di italiano”.
A questo punto deve aver visto la perplessità gonfiare i lineamenti della mia faccia, così si è affrettato a spiegare: “ma non capisce? Il tema d’italiano è circondato da un’aura di assoluto conformismo. Il foglio a righe ancora intonso dopo la dettatura della traccia già trabocca di aspettative: è esattamente da quel punto che insegniamo ai ragazzi a essere ipocriti, ruffiani, compiacenti, servili… Ci pensi bene, è tutto già lì dentro”.

Infine

Due mesi fa, stavo parlando del mestiere editoriale in un liceo classico. A un certo punto, nel bel mezzo dell’incontro, dal corridoio che portava in aula magna è risalito il grido di una persona adulta, seguito dalle urla dei ragazzi e da un rumore di porte sbattute e sedie scaraventate a terra. A poche classi di distanza, uno studente autistico aveva morso il braccio dell’insegnante di sostegno fino all’osso. Sono state interrotte le lezioni e anche il mio incontro con gli studenti. Dall’aula magna, ci siamo riversati nei corridoi, dove c’era l’insegnante azzannato in lacrime, i suoi studenti in lacrime, il ragazzo autistico visibilmente sconvolto. È arrivata un’ambulanza. Ma nel frattempo un morbido rinfrancante palpabile autentico sentimento di pace si era impadronito di tutti gli studenti. I ragazzi erano come tornati in sé dopo un lungo viaggio attraverso il paese della mistificazione: adesso all’improvviso apparivano seri, rilassati, liberi da un peso, addirittura felici e più belli, in pace con il mondo e con se stessi. La calma, una via d’uscita, finalmente la possibilità di un’isola.
Desiderare segretamente un vero shock che mandi tutto all’aria ma non essere capaci di evocarlo: in questa forbice c’è forse qualcosa di inaudito ma fondamentale per comprendere sensibilità, disagi e frustrazioni dei cosiddetti ragazzi normali.


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